L’ottavo racconto di Bar Sport è in realtà un incontro tra leggende e parolieri: Ayrton Senna, Marco Pantani e gli Invincibili del Grande Torino non sono più al volante di una monoposto, sul sellino di una bicicletta o in mezzo a campi verdi e palloni. Alla gente restano le loro imprese e le parole di chi li ha celebrati.
AYRTON SENNA: IL PILOTA
Potevo fare qualcosa
Paolo Montevecchi – Ayrton
Dovevo cambiare qualche cosa
E ho deciso, una notte di maggio
In una terra di sognatori
Dal maggio 2020 facciamo un salto fino a quello di ventisei anni fa. La terra di sognatori è l’Emilia-Romagna: proprio lì dove finisce l’Emilia e inizia la Romagna, Imola. I due artisti del brano rappresentano bene questo mix: uno è emiliano, l’altro romagnolo. C’è anche un brasiliano: il protagonista.
Il brasiliano in questione è Ayrton Senna. Uno dei due artisti conosce personalmente il pilota: nel pomeriggio di domenica 1° maggio 1994 si trova proprio all’autodromo di Imola, che porta i nomi di Enzo Ferrari e del figlio Dino. Il testo, sembra strano ma è così, lo scrive l’altro artista, quello che non ha mai incontrato Senna e che, a dirla tutta, non è nemmeno un grande esperto di motori.
Paolo Montevecchi, cesenate, sta trascorrendo la serata a casa di amici. Se il mondo intero ha la sensazione di aver appena perso un grandissimo, chi abita non lontano da Imola può sentirsi ancora più coinvolto da ciò che è successo tra le 14.17 e le 18.40: tra l’impatto alla curva del Tamburello e la morte all’ospedale di Bologna. Con quattro ore abbondanti di attesa e paura, nel mezzo. Dopo cena alla televisione passano le ultime immagini di Ayrton e non si parla d’altro, anche tra le mura di casa.
Montevecchi è un giovane attore teatrale: di mestiere non fa il cantante né tantomeno l’autore di canzoni. Dopo aver lasciato gli amici ed essere rientrato nella propria abitazione, sente però il bisogno di tirare fuori quello che gli sta passando per la testa. Tra le mani ha una chitarra da far suonare e una penna con cui scrivere. Così, in maniera alternata. Fino a concludere il testo e intitolarlo provvisoriamente Gran Premio.
Perché arrivi a più gente possibile, serve un grande che appoggi il lavoro di una persona nel cui curriculum non c’è neanche una riga dedicata alla musica. Il giovane attore nell’estate del ’94 parte dalla sua Romagna e fa un piccolo salto in Emilia, per fermarsi in via D’Azeglio. Se non siete dei gran passeggiatori dei centri-città, forse conoscete questo pezzetto di Bologna perché avete visto in foto le luminarie natalizie degli ultimi due anni. Non classici addobbi, ma versi di due grandi bolognesi. Due che hanno sempre voluto sottolineare il senso di appartenenza alla loro terra. Orgogliosamente.
Nei giorni natalizi del 2019 via D’Azeglio è stata illuminata da Nessuno vuole essere Robin di Cesare Cremonini. In uno dei suoi brani più famosi è citato Ayrton Senna: il ritornello di Marmellata #25 ve lo ricordate? Fa così: “Ah! Da quando Senna non corre più… / Ah! Da quando Baggio non gioca più… / Oh no, no! Da quando mi hai lasciato pure tu… / …non è più domenica!”.
L’anno che verrà è invece il brano che ha riempito il centro di Bologna durante il Natale precedente. Una canzone di Lucio Dalla con la quale chiudere la parentesi natalizia e tornare ad una via D’Azeglio in versione estiva. Paolo Montevecchi sta camminando da quelle parti: un’occhiata a destra e una a sinistra per cercare la sede della Pressing, casa discografica fondata da Dalla nel 1983 e incastonata proprio nella strada adiacente a Piazza Maggiore. Ha con sé un’audiocassetta e una videocassetta.
Nella prima ci sono le tre versioni de Il circo: italiana, portoghese e inglese. Il circo è semplicemente Gran Premio con un nuovo titolo, consigliato da un amico. Non è cambiata di una virgola, comincia ancora in questo modo: “Il mio nome è Ayrton e faccio il pilota / e corro veloce per la mia strada / anche se non è più la stessa strada / anche se non è più la stessa cosa”. La videocassetta contiene il filmato che lo stesso attore cesenate ha realizzato e la cui produzione è raccontata benissimo nel libro Musica per i nostri occhi. Storie e segreti dei videoclip di Domenico Leggeri.
Lucio Dalla, nell’ascoltare il pezzo e nel guardare il filmato, rimane piacevolmente sorpreso. Tra l’altro uno dei suoi tanti capolavori, Nuvolari, è dedicato proprio ad un pilota. Prendiamo un verso da entrambe le canzoni. “Il suo sguardo è di un falco per i figli”, scrive Dalla. “Dovevo cambiare qualche cosa”, scrive Montevecchi. Entrambi pieni di significato, una differenza di scrittura salta subito all’occhio. Il primo artista parla di Tazio Nuvolari, il secondo tenta di parlare a nome di Ayrton Senna.
L’utilizzo della prima persona singolare colpisce molto Lucio Dalla, che dirà: “Paolo Montevecchi non poteva sapere le cose che io sapevo di Ayrton, non l’aveva mai conosciuto: è questa la cosa incredibile. Quando andai in Brasile per un concerto – ricorda – feci ascoltare la versione portoghese del brano a sua madre e a sua sorella: loro si misero a piangere perché era esattamente il linguaggio che Ayrton utilizzava per raccontarsi”.
Il circo, che in principio si chiamava Gran Premio, viene trasformato in un semplice ed intenso Ayrton: nome che diventa titolo, non una lettera di più, non una lettera di meno. Come da accordi tra i due artisti, Ayrton (con la voce di Dalla) diventa la prima traccia dell’album Canzoni, pubblicato dalla Pressing nel settembre del 1996 e arrivato nel giro di poco tempo in cima alla classifica italiana: è la stessa raccolta in cui sono inclusi Tu non mi basti mai e Canzone.
MARCO PANTANI: IL CICLISTA
E ora mi alzo sui pedali come quando ero bambino
Bigazzi, Curreri, Grandi – E mi alzo sui pedali
Dopo un po’ prendevo il volo dal cancello del giardino
E mio nonno mi aspettava senza dire una parola
Perché io e la bicicletta siamo una cosa sola
Giorgio Terruzzi, giornalista sportivo, ha scritto un bel libro su Ayrton Senna. A volte si usa l’espressione pezzo di bravura: è appropriata se riferita a Suite 200, un’opera tanto difficile da produrre quanto innovativa da leggere. Il secondo aggettivo non si riferisce ai contenuti: quello è un fatto personale, magari c’è chi conosce la vita di Senna meglio di Terruzzi (difficile, ma possibile) e magari c’è chi non sa nulla del pilota verdeoro (e non c’è mica niente di male).
Innovativa è la narrazione. Il titolo Suite 200 corrisponde alla vera stanza d’albergo in cui Ayrton ha passato la sua ultima notte, che divideva il mese di aprile dal mese di maggio. In quella stanza e in quella notte è ambientato l’intero libro: chi scrive si immedesima nella vita del pilota facendo emergere fragilità e punti forti, non solo del campione ma soprattutto dell’uomo.
Se sentite il nome di Ayrton Senna, però, la vostra mente non va immediatamente ad una stanza d’albergo: magari dopo un po’, e solo se vi è passato fra le mani il libro di Terruzzi. Se sentite il nome di Marco Pantani, invece, la vostra mentre probabilmente impiega pochissimo a raggiungere una stanza d’albergo. Non è semplicemente un luogo in cui il Pirata ha trascorso la sua ultima notte: è il posto in cui è morto.
La stanza D5 del residence Le Rose di Rimini, piaccia o no, sta a Pantani come la curva del Tamburello sta a Senna. No, non ci piace per niente. Ci provoca disgusto, tristezza, rabbia. Due di queste tre emozioni, che ci ricordano i personaggi del film d’animazione Inside Out, qualcuno le potrebbe collegare anche alla morte di Senna: la tristezza per ovvi motivi, ma anche la rabbia. Le qualifiche del sabato pomeriggio erano state fatali all’austriaco Roland Ratzenberger e alla domenica si è corso ugualmente: era giusto? Sì? No? Ognuno può pensarla come vuole.
Restano, in ogni caso, due modi di andarsene completamente diversi: quello bravo sulle quattro ruote ha lasciato la scena mentre stava facendo la cosa che amava fare e con addosso gli occhi di tutto il mondo, quello bravo sulle due ruote in piena solitudine e dopo anni difficili. Le morti di Ayrton e di Marco alcune cose in comune le hanno, si tratta più che altro di due fredde constatazioni, una geografica e una numerica. L’ultima terra è per entrambi la Romagna: Imola per uno (considerando il circuito e non l’ospedale), Rimini per l’altro. Anche l’età corrisponde: 34 anni e 1 mese.
Le loro tante imprese, invece, possiamo unirle con il giallo, che per Senna è il colore del casco (se nel 2007 un pilota britannico di nome Lewis Hamilton si è affacciato alla Formula 1 con un casco giallo, la casualità non c’entra niente: il suo idolo era ed è quel brasiliano tre volte campione del mondo e vincitore di quarantuno gare di Formula 1). Per Pantani rappresenta ovviamente la maglia gialla del Tour de France, riportata in Italia trentatré anni dopo la vittoria di Felice Gimondi: un 1998 speciale quello del Pirata, capace di fare la doppietta Giro-Tour. Ultimo a riuscirci.
Non si doveva parlare di canzoni? Ci arriviamo, anche perché sono almeno una dozzina i brani dedicati a Pantani. Per cantare uno sportivo, però, non è necessario avere una bella voce e uno strumento musicale accordato. Lo si può fare anche avendo soltanto carta e penna. Oppure una macchina da scrivere, la sola rimasta in una sala stampa francese piena di computer: quella di Gianni Mura, che al Tour veniva circondato dalle telecamere dei giapponesi, incuriositi da questo aggeggio e dal ticchettio dei suoi tasti. Mura è morto lo scorso 21 marzo, il giorno in cui Senna avrebbe compiuto 60 anni (avete visto che Ayrton riesce sempre ad infilarsi tra queste righe, come faceva in pista per sorpassare chi gli stava davanti).
Quando un bravo cantante non c’è più, lo possiamo ritrovare nelle sue canzoni. Un bravo sportivo nelle sue sfide. E un bravo giornalista? Si può: nei suoi testi. Tra gli archivi, anche online, c’è tanto di Gianni Mura: ad esempio i pezzi pubblicati su Repubblica il 28 luglio 1998 e il 15 febbraio 2004. Il primo celebra, in pieno stile Mura, l’attacco di Pantani sul colle del Galibier e la conquista della maglia gialla. Il secondo termina così: “Diventerà un mito, probabilmente. Come quelli che muoiono troppo presto, come quelli che non si sa perché muoiono. Avrei preferito vederlo invecchiare, e bere un bicchiere di Sangiovese con lui, da qualche parte sulle sue colline”.
C’è poi un articolo di Marco Pastonesi, scritto per La Gazzetta dello Sport nella tarda serata di quel sabato 14 febbraio, che fa riflettere anche sulla grandezza dell’evento: “Come per il Grande Torino a Superga, per la morte di Coppi, per l’Heysel, tutti si ricorderanno dov’erano quando hanno saputo del decesso di Pantani”. Se siete troppo giovani, provate a pensare al momento in cui vi è stata comunicata la morte di Marco Simoncelli o quella di Davide Astori. Vale anche per gli eventi non sportivi (del passato o un po’ più recenti): il rapimento di Aldo Moro e la caduta delle Torri Gemelle, shock che spaccano la tua quotidianità e ti restano impressi per sempre.
Pantani e Simoncelli. Marco uno, Marco l’altro. Romagnolo uno, romagnolo l’altro. Tifoso milanista uno, tifoso milanista l’altro. Il 24 maggio del 1999, giorno successivo alla vittoria del sedicesimo scudetto del Milan (con un altro romagnolo in panchina, Zaccheroni), era in programma la decima tappa del Giro d’Italia. Il look di Pantani? Una bandana rossonera in testa!
Simoncelli, invece, è stato protagonista di qualche siparietto con l’interista Valentino Rossi: “Ci becchiamo spesso: appena uno può, prende per il c… l’altro”, raccontava. I loro cuori rossoneri hanno entrambi smesso di battere poco prima che il loro Milan scendesse in campo a Lecce. Memorabile il match dell’ottobre 2011: una delle più belle rimonte del calcio italiano (3-0 Lecce all’intervallo, 4-3 Milan al fischio finale). 1-1 nel febbraio 2004, punticino utile per lo scudetto numero 17.
In quel Lecce-Milan non era previsto il minuto di raccoglimento per Marco Pantani, osservato grazie alla volontà e alla determinazione di Paolo Maldini. Il Pirata, solo pochi anni prima, aveva partecipato all’addio al calcio di Franco Baresi, altro grande capitano del Milan (che compie 60 anni nello stesso giorno in cui i tasti di questo computer non vedono l’ora di essere lasciati in pace, infastiditi dall’obbligo di essere complici di questo sgangherato insieme di righe).
Quante canzoni sono state scritte per Pantani? Una marea, è difficile sapere il numero esatto. Se date un’occhiata a Wikipedia, ne appaiono dodici. Poi, se fate un salto su YouTube, ne spuntano alcune che in quella lista non c’erano. Magari altre ancora sono nascoste chissà dove.
A dir la verità, tra queste ce n’è una che non è stata scritta pensando a Pantani, eppure è stata scelta dalla famiglia di Marco come colonna sonora della fondazione in sua memoria. Lo racconta proprio Riccardo Maffoni, autore di Uomo in fuga: “Il brano fa parte di un album uscito esattamente il giorno prima della morte di Marco Pantani. Quando l’ho scritto volevo descrivere le sensazioni, le frustrazioni, la tristezza e la solitudine che avvolgono una persona che sta passando un momento molto negativo della propria vita. Secondo la famiglia e la fondazione, anche se non era stata scritta per Marco, in certi punti ricordava proprio la sua vita e per questo motivo è stata scelta. Questa cosa mi ha fatto sentire molto onorato”.
Baccini, gli Stadio, Venditti. Dai loro album e da quelli di altri artisti potete pescare un sacco di versi meravigliosi dedicati a Pantani. Anche Alexia ha scritto e cantato pensando a quel ciclista di mare che andava forte in montagna. Senza un vincitore è un brano con uno stile completamente diverso rispetto ad altri che l’hanno resa famosa, come ad esempio The summer is crazy, col quale lei stessa a metà degli anni Novanta dominava la classifica italiana ed era presente in parecchie di quelle straniere. Il testo scritto per il campione di Cesenatico si chiude con due parole: “Ciao pirata”.
GRANDE TORINO: I CALCIATORI
Quel giorno di pioggia non pioverà più
Sensounico – Quel giorno di pioggia
Col tempo si cambia e cambierai tu
Si cambia con forza o forse non so
Si cambia per forza ma non scorderò
Quello di lunedì scorso è stato un 4 maggio particolare per il popolo granata. Il virus ha impedito il rituale pellegrinaggio alla basilica di Superga, dove 71 anni fa cadeva l’aereo del Grande Torino e dove ogni 4 maggio il capitano legge i nomi delle trentuno persone coinvolte nell’incidente. Quel Torino grande lo è stato davvero: chi vuole può dare un’occhiata all’albo d’oro del campionato di Serie A.
Negli anni Quaranta trovate due spazi vuoti perché i campionati 43-44 e 44-45 non si sono disputati: il calcio in Italia non si era completamente fermato, ma si giocavano solo competizioni a livello locale. Sopra e sotto quei due spazi vuoti c’è il Torino: uno titolo nel 42-43 e quattro alla ripresa. Se 5 scudetti consecutivi sono tanti, c’è un numero col quale poter capire ancora meglio la forza della squadra che riempiva lo stadio Filadelfia a suon di gol e di emozioni: 10. Il Dieci è anche ciò che salta all’occhio guardando la schiena di capitan Valentino Mazzola, cosa non trascurabile, ma quel dieci a cui si faceva riferimento è il numero di calciatori del Toro presenti nella formazione titolare di Italia-Ungheria. 11 maggio 1947: vittoria per 3-2 contro la squadra di Puskas, al Comunale di Torino.
Mancava solo il portiere Bacigalupo, che nel giro azzurro ci sarebbe entrato qualche mese dopo: tra i pali lo juventino Lucidio Cochi Sentimenti, conosciuto come Sentimenti IV perché quarto di cinque fratelli calciatori. C’è una storia curiosa che lo vede protagonista insieme ad uno di questi, Arnaldo (Sentimenti II), anche lui portiere. In carriera Lucidio ha tirato e segnato vari calci di rigore: uno di questi con la maglia canarina durante un Napoli-Modena del 1942, battendo proprio Arnaldo e interrompendo la sua incredibile serie di nove rigori parati. Le cronache di quei tempi dicono che il portiere del Napoli abbia rincorso quello del Modena per varie decine di metri.
“Testimone della nostra storia, un nome che tutti quanti abbiamo sentito: è bello che questo campo nasca con il suo sorriso a centrocampo. Una leggenda juventina e una leggenda del calcio in tutto il mondo”. Durante la notte d’inaugurazione dello Juventus Stadium, Linus ha accolto con queste parole l’ingresso in campo del portiere-goleador originario di Bomporto.
Tornando all’altra sponda di Torino, il popolo granata ha comunque trovato il modo di celebrare gli Invincibili anche in questo 2020, in cui non è possibile raggiungere il colle di Superga come gli altri anni. Così: uscendo sui balconi, sventolando qualcosa di color granata e cantando Quel giorno di pioggia dei Sensounico. Alle 17.03, esattamente settantuno anni dopo “lo schianto nel cielo che spense in un lampo il Grande Torino, quel lampo che porta il ricordo di chi non c’è più”.
Corriere della Sera di sabato 7 maggio 1949, parole di Indro Montanelli: “Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta”.