Fare un Bradbury: ghiaccio, sofferenza e… oro olimpico

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Nel terzo millennio, in Australia, è nato un nuovo modo di dire: “Doing a Bradbury”. Lo scopriamo nel primo articolo della nuova nostra rubrica Bar Sport – Vite da Leggere

Nel terzo millennio, in Australia, è nato un nuovo modo di dire: “Doing a Bradbury“. A noi italiani queste tre parole (anche tradotte) suggeriscono poco. Nell’era di internet, però, l’ignoranza è meno ammessa che in altri tempi. Ci aiutiamo allora con la versione inglese del dizionario di Wikipedia, nel quale troviamo questa definizione: “Fare un Bradbury = trionfare inaspettatamente in un evento sportivo“.


In pochi possono dirsi esperti di short track: probabilmente per tanti di noi, appassionati di sport, è una di quelle discipline a cui diamo una reale considerazione solo nei febbrai degli anni pari non bisestili, per poi rimetterla nel dimenticatoio per un intero quadriennio.

La parola ‘Bradbury’ a qualcuno potrebbe aver fatto accendere una lampadina.


La Gialappa’s Band ha contribuito a rendere mitica la vittoria di Steven Bradbury: il video racconta la vicenda in modo chiaro, non servono altre parole. Beh, dai, facciamo un brevissimo riassunto per provare a rimettere in carreggiata anche i più pigri, che non hanno fatto ‘clic’. Ai Giochi olimpici invernali del 2002, sulla pista di Salt Lake City, il nostro protagonista vince la medaglia d’oro nei 1000 metri. Cosa c’è di strano? Che, già nei quarti di finale, è il primo candidato all’eliminazione. Come fa a vincere? Quelli davanti hanno vari incidenti di percorso. Cioè? Troppe domande, potete fare quel ‘clic’ che non avete fatto prima, noi dobbiamo andare avanti. O meglio: indietro.


Sì, indietro. Nel filmato si scopre solo una parte della storia sportiva e umana di Bradbury. Una storia che, per essere raccontata come si deve, ha bisogno di un tuffo nel passato. Il flashback ci fa arrivare fino al 1994, mancano ancora otto anni a quella che il comitato olimpico internazionale definirà “la più inaspettata medaglia d’oro della storia“. Steven è un ventenne con un curriculum già ricco, nel quale troviamo un oro mondiale (nella staffetta vinta in casa, Sydney 1991) e una partecipazione olimpica (in Francia, Albertville 1992). Di lui si parla molto bene, e i fatti non smentiscono chi la pensa così: dai Giochi di Lillehammer, insieme ai suoi compagni di squadra, porta in Australia un bronzo storico. Perché là di koala e canguri ce ne sono sempre stati tanti, ma di medaglie olimpiche invernali fino al 1994 neanche una.


Sembra una carriera lanciata verso il meglio. Sembra. Siamo ancora nel ’94. Dalla Norvegia ci spostiamo a Montreal, in Canada, dove è in programma una gara di Coppa del Mondo. 4. 111. 18. Non sono né secondi, né decimi, né centesimi, ma le conseguenze dell’infortunio causato da una caduta: la lama del pattino di un altro atleta recide l’arteria di Bradbury, mettendo a rischio carriera e vita. Quattro litri di sangue persi, centoundici punti di sutura e diciotto mesi di riabilitazione. Ma Steven non lascia, anzi raddoppia…


Lo short track non è più solamente il suo sport, ma anche il suo lavoro. Per guadagnarsi da vivere, senza mai abbandonare il sogno a cinque cerchi, decide di avviare un’impresa manifatturiera che produce pattini da ghiaccio. Sulla pista Steven non è più quello di un tempo, ma nel 1998 riesce ugualmente a partecipare ai Giochi di Nagano, in Giappone. Poi quattro anni tranquilli fino all’oro di cui già sappiamo, no? No, non va esattamente così. È il settembre del 2000, manca quindi meno di un anno e mezzo all’obiettivo olimpico, quando una caduta in allenamento mette k.o. due vertebre del collo: ‘stop’ a tutta la stagione. A dir la verità i dottori non gli dicono che è finita la stagione, ma che con tutta probabilità è finita la carriera.


Steven Bradbury sa bene che la strada verso Salt Lake City è lunga e tortuosa, anzi di più: lunghissima e tortuosissima. Eppure vuole fortemente partecipare ai Giochi. Solo un ultimo giro in giostra, poi basta, ma quell’ultimo giro ci dev’essere. Non è sufficiente pensarlo, bisogna passare attraverso una complicata riabilitazione e poi guadagnare il pass per gli Stati Uniti.


Il resto del racconto lo conosciamo. Nei secoli l’Australia aveva visto tante cose, ma fino a quel 16 febbraio 2002 di ori olimpici invernali neanche l’ombra. Non solo: è il primo in tutto l’emisfero meridionale del mondo. E, così, la storia dello sport cambia grazie alla costanza di un atleta, in missione per un sogno.


Prima di togliersi i pattini per l’ultima volta, con il metallo più prezioso al collo, Steven Bradbury pronuncia queste parole: “Ovviamente non ero il più veloce in pista, ma non penso di aver vinto la medaglia con questo minuto e mezzo di gara: l’ho vinta con un decennio di duro lavoro“. Giù il cappello.

Testo di Riccardo Corradini per CSI Modena

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