Il settimo racconto di Bar Sport è un po’ diverso dai precedenti: anziché la vita di qualche personaggio, stavolta a condurci è una data. Quella di oggi, il Primo Maggio. Viaggeremo tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra, tra Chicago e le rive del Tamigi. Attraversando pagine di storia e pagine di sport, che a dire il vero fanno parte dello stesso libro. Sempre.
Perché il primo giorno di maggio è segnato in rosso sui nostri calendari? È la Festa dei lavoratori, fin qui poche difficoltà a rispondere. Per quale motivo, però, si celebra proprio in questa data? Indizio: non è stata messa lì con lo scopo di regalarci un ponte al mare (altrimenti nel 2020 avremmo potuto cancellare la festività) o di farci cantare al Concertone in maniche corte (idem). Le ragioni di questa scelta dobbiamo andare a cercarle nella Chicago del diciannovesimo secolo.
Con l’avanzare dell’industrializzazione, nell’Ottocento in varie zone del mondo la questione delle condizioni di lavoro e di vita degli operai assumeva sempre più rilevanza. In fabbrica uomini, donne e minori erano sottoposti ad un vero e proprio sfruttamento: ritmi massacranti, disciplina ferrea, 15 ore giornaliere per molti di loro. Quest’ultima era già una ‘conquista’ (servirebbero più virgolette): nel Regno Unito prima della legge del 1833 si lavorava anche più di quindici ore al giorno. Con quello stesso regolamento venne anche stabilito il limite di otto ore per i ragazzini dai 9 ai 13 anni.
Provare ad immaginarci un bimbo, in età da terza o quarta elementare, costretto ogni mattina a svegliarsi per andare in fabbrica può aiutarci a fare un tuffo all’indietro di due secoli. Probabilmente questo sforzo di immaginazione ci richiede troppa fatica: meno male, vuol dire che le cose sono cambiate. Non dappertutto in realtà, sappiamo infatti che in alcune parti della Terra quello del lavoro infantile è ancora un problema serio.
Nella seconda metà dell’Ottocento, proprio nel Regno Unito, le associazioni dei lavoratori (Trade Unions) furono riconosciute formalmente, dando il via a quello che oggi conosciamo come sindacalismo. L’arma principale a disposizione di lavoratori e sindacati era lo sciopero, che per lungo tempo fu però considerato come un reato.
Dopo questa necessaria parentesi britannica, possiamo andare oltreoceano come ci eravamo detti all’inizio: raggiungiamo il midwest degli Stati Uniti d’America perché a Chicago, nel 1884, una delle prime sigle sindacali americane tenne un congresso per rivendicare le otto ore di lavoro giornaliere, indicando il 1° maggio del 1886 come termine dal quale sarebbe dovuto entrare in vigore questo nuovo orario. La data non era casuale: nel 1867, lo stesso giorno, ci fu il primo grande sciopero per le otto ore. In quell’occasione manifestarono ben 10mila lavoratori.
L’Illinois era uno degli stati più soggetti al fenomeno dell’immigrazione: solo a Chicago, nella parte finale del diciannovesimo secolo, si contavano comunità appartenenti a più di 25 nazionalità europee. L’inserimento fu molto travagliato, con numerosi episodi di razzismo. Queste le righe scritte nel 1888 da un quotidiano di Chicago in lingua tedesca (e riportate sul manuale Storia contemporanea di Caracciolo e Roccucci): “Le indagini condotte dal Congresso sugli immigranti italiani rivelano fatti davvero sgradevoli. Gli immigranti italiani possiedono un livello di cultura ed educazione così basso che i lavoratori americani, abituati a un più alto livello di vita, non possono competere con loro.
È impossibile per gli americani piegarsi a livelli così bassi di esistenza, come per esempio vivere di rifiuti, essere ammassati insieme come animali, non avere la minima nozione di pulizia e igiene. Non ci può essere nessun vantaggio per questo paese nel lasciar entrare gente simile. Al meglio, possono contribuire a portare una condizione di barbarie. Se, in aggiunta a ciò, si pensa che da qui a pochi anni queste persone mezzo civili avranno il diritto di voto e quindi contribuiranno a decidere il destino di questo paese, non si può non rabbrividire all’idea di un futuro affidato in simili mani”.
Come abbiamo capito, negli anni Ottanta il tasso di conflittualità sociale a Chicago era salito. Di seguito alcuni momenti-chiave. Novembre 1884: venne organizzata la marcia dei poveri, un corteo guidato dai leader anarchici che sfilò sotto le case dei ricchi. 4 maggio 1885: la polizia causò due morti sparando su una manifestazione di cavatori. Febbraio 1886: lo sciopero dei lavoratori alla fabbrica McCormick si concluse con un violento intervento della polizia e l’arresto di tanti operai.
1° maggio 1886: una manifestazione di 80mila persone, organizzata per le otto ore, sfilò lungo la via principale della città. 2 maggio 1886: le forze dell’ordine intervennero contro gli operai che protestavano davanti alla McCormick, sparando e uccidendo quattro di loro. 4 maggio 1886: nel corso di una manifestazione a Haymarket Square, convocata per reagire a questi eventi, scoppiò una bomba che uccise alcuni poliziotti. Novembre 1887: fu eseguita la condanna a morte ai danni di quattro anarchici, in seguito al caso della bomba.
Diversi centri industriali degli Stati Uniti e del mondo ebbero a che fare con episodi di conflittualità sociale, ma gli eventi di Chicago lasciarono il segno più di tutti gli altri. Fu proprio in memoria dei martiri di Haymarket che al congresso internazionale del lavoro a Parigi, nel luglio del 1889, il Primo Maggio venne proclamato Festa internazionale dei lavoratori. Una ricorrenza che oggi è segnata in rosso sui calendari di tantissime nazioni.
Risolta così la domanda iniziale, eccone subito un’altra: come mai in questo racconto di Bar Sport si è dato spazio a qualcosa che non ha molto di sportivo? Potremmo scegliere di parafrasare José Mourinho, estendendo il suo concetto calcistico e trasformandolo così: “Chi sa solo di sport, non sa niente di sport“. O, magari, visto che il Primo Maggio è capitato nel nostro venerdì, potremmo semplicemente sfruttare l’assist del calendario. Restando nella città più grande dell’Illinois.
Se qualcuno dovesse fare un elenco dei posti al mondo in cui si respira più profondamente la parola sport, sicuramente includerebbe Chicago. Non solo considerando il tifo (e ci arriviamo), ma anche la pratica effettiva. In un distretto che conta 570 parchi e le 31 spiagge offerte alla città dal lago Michigan, lo sport è sicuramente qualcosa che non si ferma all’essere guardato in tv o nei palazzetti.
L’aspetto professionistico, però, non è qualcosa che si può mettere in secondo piano. Non a Chicago. Una delle sette città americane ad aver vinto almeno un titolo in ognuna delle quattro grandi leghe (insieme a New York, Boston, Los Angeles, Philadelphia, Washington e Detroit). Se consideriamo anche il calcio, che non è il tipico sport USA ma sicuramente oggi è la prima delle altre leghe, rimangono tre le città ad aver fatto l’en plein nelle cinque principali discipline: Los Angeles, Washington e proprio Chicago.
Dei 28 titoli nazionali sparsi nella Windy city, 9 sono nella bacheca dei Bears (che l’ultimo titolo NFL lo hanno però vinto trentacinque anni fa, nel Super Bowl del 1985). Il Super Bowl, la finale di football americano, rappresenta l’evento più seguito dalla nazione, ma a Chicago il posto in cui sono più alti i decibel è lo stadio del ghiaccio United Center: qui giocano a hockey i Blackhawks (nome scelto dal primo proprietario in onore del battaglione di cui era comandante), vincitori di 6 campionati NHL.
Gli appassionati di serie televisive conoscono certamente Chicago Fire, ma nel mondo dello sport queste due parole ci segnalano l’omonima squadra di calcio fondata nel 1997 e campione MLS già al primo tentativo l’anno successivo, unico titolo al momento. Con i Fire hanno giocato anche il bulgaro Hristo Stoichkov, capocannoniere al Mondiale USA 1994 (proprio al Soldier Field di Chicago 2 di quei 6 gol), e il tedesco Bastian Schweinsteiger, campione del mondo in Brasile nel 2014.
Abbiamo visto che football americano, hockey e calcio da queste parti sono rappresentati principalmente da una squadra, non è così per il baseball. Il tifo è molto legato alla zona: se sei cresciuto nel nord della città, tendenzialmente vai a vedere i Cubs; al contrario, a sud si seguono i White Sox (un esempio illustre è Barack Obama, cresciuto nella parte povera e fan dei Sox). La bilancia con le vittorie non pende da nessun lato: per entrambi 3 campionati MLB.
Finito? No, mancano ancora 6 titoli, anelli per la precisione: quindi si parla di pallacanestro. Sono tutti di una squadra che ha impiegato solamente otto stagioni per vincerli, dal 1991 al 1998. In questi giorni si parla di loro, complice la serie tv The Last Dance: sono i Bulls, trascinati negli anni Novanta da due grandi guide.
Una guida in panchina, Phil Jackson: nessun allenatore ha vinto tanti titoli NBA come lui, undici. L’altra sul parquet: ha il numero 23 tratteggiato sulla canotta rossa, è il più forte della storia del gioco e si chiama Michael Jordan. 9+6+1+3+3+6=28. Ventotto trofei, siamo arrivati in fondo.
“Chicago – riflette il giornalista Massimo Marianella – vive di sport e lo vedi, lo senti ogni giorno. Pagine di storia sportiva sono state scritte qui e qui restano a cementare la passione. Perché parlano di leggende dello sport americano talmente grandi che neanche l’altrettanto leggendario vento della città ha mai potuto spingerle via”.
Qualche riga fa ci eravamo fermati nel Regno Unito. Lì torniamo, giusto il tempo di accennare brevemente una storia che collega il lavoro manuale e lo sport.
Gli ultimi Giochi olimpici estivi disputati in Europa sono andati in scena nella capitale inglese, Londra: se nell’estate del 2012 passando da quelle parti ci si poteva imbattere nei tre ori di Usain Bolt o nel bronzo del nostro Fabrizio Donato col suo salto triplo, oggi passeggiando nei pressi dello stadio al sabato pomeriggio è facile notare tante sciarpe claret and blue.
Traducendo, sono l’amaranto e l’azzurro: i colori del West Ham United, club calcistico che ha vissuto per 112 anni al Boleyn Ground prima di trasferirsi nel 2016 al London Stadium. Come Chicago, anche Upton Park (sorgeva lì il Boleyn) è un posto in cui sono mischiate tante differenti culture.
“Una meraviglia dei giorni delle partite – spiega Roberto Gotta nel suo libro Le reti di Wembley (scritto nel 2003 sull’Appennino modenese, a Guiglia) – è che tra gli sciami di tifosi che inglobano i marciapiedi e il bordo della strada circolano donne fasciate nei vestiti dei loro paesi, ragazze con il velo islamico e big mamas nigeriane avvolte in vestitoni bianchi, e il contrasto tra queste figure, che al sabato pomeriggio sono nel pieno della spesa, e i tifosi che marciano con passo deciso verso la parte meridionale della strada è molto marcato e per tanti aspetti affascinante”.
Oggi, anche se quelli in maglia claret and blue non giocano più ad Upton Park, andando ad una loro partita potete comunque sentir cantare queste tre cose, e occhio in particolar modo alla terza. Subito un brano classico come London Calling dei The Clash, che per la fase di riscaldamento è nelle playlist di vari stadi della capitale. Poi, mentre le squadre entrano in campo avvolte da bolle di sapone, vedete ogni persona intorno a voi (dal bimbo di quattro anni al nonno di ottanta) intonare I’m forever blowing bubbles, l’inno del club. Come on you Irons, invece, è il coro più ripetuto durante la gara.
Eccolo qui il legame tra lavoro e sport: Irons sta per Ironworks. Alle origini del West Ham United, infatti, ci sono i portuali dei cantieri navali. Il caposquadra Dave Taylor chiese all’amministratore delegato Arnold Hills di formare un team di calcio aziendale, per poter giocare nel dopolavoro insomma. Venne ufficialmente fondata il 29 giugno 1895: Thames Ironworks Football Club. Dal 1900 la conosciamo col nome attuale, ma guardando lo stemma c’è ancora tanto di quelle origini.
Sulle maglie da gioco del West Ham United sono ancora presenti gli hammers, due martelletti incrociati. Erano gli strumenti di lavoro più utilizzati da quei portuali-calciatori che vivevano sulle rive del fiume Tamigi. Un giusto tributo a chi ha scritto la prima pagina della storia: senza la loro idea di 125 anni fa, oggi da quelle parti non ci sarebbe il magnifico binomio claret and blue e la gente soffierebbe meno bolle verso il cielo londinese.