Magie ed emozioni all’ultimo secondo: un viaggio tra gol e canestri decisivi

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Il nono racconto di Bar Sport è un percorso di sei tappe: da Barcellona a Toronto, passando per Houston, Milano, Manchester e Watford. Un viaggio per ripercorrere alcune partite che hanno entusiasmato milioni di sportivi.

Quali sono le partite (o gli eventi sportivi, potete metterci dentro tutto) che vi hanno emozionato di più? Prima di proseguire, riflettete qualche secondo. Fatto? Bene. Ognuno di noi ha le proprie radici, la propria disciplina preferita, la propria squadra del cuore. Fattori che determinano le nostre personalissime classifiche, belle proprio perché nostre. Se potessimo sbirciare le carte altrui, probabilmente noteremmo che sono tante quelle pescate dallo stesso mazzo: qualsiasi sia lo sport, infatti, è facile che il pensiero di tanti di noi sia arrivato a sfide che si sono decise negli ultimi istanti.

Se non avete mai guardato un match di calcio o di basket, difficilmente scorrendo in giù potete trovare quello a cui avete pensato pochi attimi fa. Però c’è una buona notizia: su questa macchina del tempo potete salire anche voi.

Se, invece, siete amanti del calcio e/o del basket, la premessa è questa: non è una classifica, ma solamente un viaggio in mezzo a stadi e palazzetti. 20 anni, 6 tappe. Le nostre guide? I gol e i canestri.

TAPPA 1: BARCELLONA, 26 MAGGIO 1999

Il giro parte dal Camp Nou di Barcellona, teatro della 44a finale di Champions League. Più di 90mila spettatori sono presenti il 26 maggio del 1999: chi alla mattina ha dato un’occhiata ai giornali, sa che vedrà salire per la prima volta sul tetto d’Europa una squadra che l’anno precedente non ha vinto il titolo nazionale e neanche quello continentale. Passo indietro, agosto 1998: Manchester United e Bayern Monaco si presentano ai nastri di partenza della Champions come seconde classificate dei rispettivi campionati. Fino a due anni prima, non avrebbero potuto partecipare perché al torneo erano ammessi solo i campioni in carica.

La strada verso la finale del Camp Nou è complicata, sia per gli inglesi che per i tedeschi. Non tanto per il turno preliminare (che, comunque, può sempre riservare insidie), quanto per le fasi successive. Il gruppo D è come lo Stelvio per i ciclisti del Giro d’Italia: Barcellona, Bayern Monaco e Manchester United sono tutti insieme. Dopo la prima giornata, a sorpresa, la capolista solitaria non è nessuna di queste: davanti c’è il Brondy, capace di battere il Bayern all’esordio mentre le altre due fanno registrare uno spettacolare 3-3 in Inghilterra.

La fase a gironi vede la partecipazione di 24 squadre: solo la stagione successiva diventerà a 32. Questo significa che ci sono sei gruppi e che ai quarti di finale si qualificano solo le prime classificate e le due migliori seconde. Sì, allora assomiglia proprio allo Stelvio il gruppo D. Come avete capito, alla fine passano sia Lothar Matthaus e compagni (come primi) che David Beckham e soci (tra le migliori seconde). Bayern 11, United 10, Barça 8, Brondy 3. Negli scontri diretti due pareggi: 2-2 all’Olympiastadion, 1-1 a Old Trafford. E al Camp Nou? Avete ragione, bella domanda, perché ci torneranno: in casa del Barcellona i tedeschi vincono 2-1, gli inglesi pareggiano 3-3 come all’andata.

Per arrivare all’ultimo atto, il Bayern supera prima il Kaiserslautern nel derby (2-0 e 4-0) e poi la Dinamo Kiev di Andriy Shevchenko, uno dei due capocannonieri della Champions 98/99 (3-3 in Ucraina, 1-0 al ritorno). Lo United, invece, spazza via l’Italia dal tabellone: ai quarti l’Inter (2-0 all’andata, 1-1 a San Siro) e in semifinale la Juventus: dopo l’1-1 di Manchester, i Red Devils rimontano il doppio svantaggio (due gol di Inzaghi nei primi 11 minuti) e vincono al Delle Alpi col punteggio di 3-2. La rete che sposta la qualificazione, quella del 2-2, è dell’altro goleador del torneo: Dwight Yorke, a quota otto gol come Sheva.

Far fuori le italiane dal tabellone è un’impresa difficilissima. Lo dice la storia di quel periodo: nelle dieci stagioni precedenti, solo una volta la finale non era stata giocata da una squadra di Serie A. Unico buco nel 1991. Un po’ di Italia, a dir la verità, c’era anche quel giorno: gli spettatori seduti al San Nicola di Bari. E a Barcellona, il 26 maggio del 1999, nessuno parla italiano? L’arbitro sì, è Pierluigi Collina.

Sia la squadra di Alex Ferguson che quella di Omar Hitzfeld sono in corsa per il treble (tripletta: Champions, campionato, coppa nazionale), un’impresa riuscita fino a quel momento solo a Celtic (’67), Ajax (’72) e Psv (’88). Al Manchester United la Coppa dalle Grandi Orecchie manca da trentuno anni, al Bayern da ventitré. E se per il calcio tedesco l’ultima vittoria è recentissima (Borussia Dortmund, ’97), dalle parti della Regina è da un bel po’ che non arriva il titolo europeo. Era il 1984: a Roma se la ricordano bene quella finale, vinta dal Liverpool. Poi praticamente il nulla. Cinque anni di squalifica dalle coppe in seguito dei fatti dell’Heysel (dal 1985 al 1990) e tante sconfitte al rientro nel continente: solo un risultato degno di nota, la semifinale raggiunta proprio dai Red Devils nel 1997.  

Arriviamo al punto, finale 1999. Visto che si è già usato tanto inchiostro per contestualizzare l’evento, la facciamo breve: il consiglio, valido anche per le prossime tappe, è di guardare il filmato. Subito avanti il Bayern con una punizione di Basler al sesto minuto. Fino al 90’ il punteggio non cambia: vanno più vicini i bavaresi al raddoppio che gli inglesi al pareggio. Palo e traversa nel secondo tempo per gli uomini di Hitzfeld.

Solo due sostituzioni per Alex Ferguson: dentro Teddy Sheringham (che nel girone, quando lo United era sopra per 2-1 a Monaco, aveva segnato nella propria porta l’autogol del 2-2) e Ole Gunnar Solskjaer, attaccante norvegese capace di mettere a segno 12 gol in Premier nonostante le sole 19 presenze. Il quarto uomo Treossi alza il tabellone luminoso: tre minuti di recupero. Angolo per il Manchester United, sale anche il portiere Schmeichel. Chi pareggia? Teddy Sheringham. Non è finita, altro corner. Chi segna il gol del 2-1? Ole Gunnar Solskjaer. Ben fatto, Ferguson.

https://www.youtube.com/watch?v=CpBHjXrS4JQ

La finale più incredibile di sempre. I giocatori del Bayern sono increduli, il più disperato di tutti è un 22enne ghanese, l’unico calciatore non tedesco nell’undici titolare: Samuel Kuffour. Avrà modo di rifarsi due anni più tardi, vincendo a San Siro la finale col Valencia.

TAPPA 2: HOUSTON, 9 DICEMBRE 2004

Proseguiamo in direzione Texas, dove si trova il Toyota Center, un palazzetto da più di 18mila posti inaugurato nel 2003 con un concerto dei Fleetwood Mac. Tra i brani più famosi del gruppo rock c’è sicuramente Dreams, che alla fine degli anni Settanta li ha portati in cima alle classifiche americane. In Florida, sempre in quel periodo, nasceva Tracy McGrady: è lui il protagonista della seconda tappa, è lui l’autore di una delle prestazioni individuali più belle di sempre. Una roba che fai fatica anche a vivere nei sogni. Dreams.

Rispetto agli altri attimi sportivi del nostro viaggio, questo è l’unico che si svolge nella prima parte della stagione. Siamo a dicembre, non ci sono in palio titoli o qualificazioni al turno successivo. È una semplice partita di regular season, si tratta comunque di una gara importante: il derby texano tra gli Houston Rockets e i San Antonio Spurs. Questi ultimi a fine stagione conquisteranno il titolo NBA, trascinati da un trio meraviglioso, fra i più vincenti nella storia dello sport (4 anelli da compagni di squadra, tra il 2003 e il 2014): Tim Duncan, Tony Parker e Manu Ginobili. The Big Three, li chiamano così.

La sera del 9 dicembre 2004, però, devono fare i conti con The Big Sleep. Anche se, fino a poco più di mezzo minuto dal termine, sembra filare tutto liscio per gli Spurs, che sono in vantaggio di otto punti. 76-68. The Big Sleep (Il grande sonno) è un film del 1946, anno in cui è nata la NBA, ma è anche il soprannome di Tracy McGrady: in un’intervista aveva dichiarato che nel suo primo periodo tra i professionisti gli capitava di dormire fino a 13-14 ore al giorno. Spiegato il motivo.

Da 76-68 Spurs, come va a finire? Vincono i Rockets: 81-80. Tutto in circa trentacinque secondi. Tempo sufficiente a T-Mac per mettere a segno tredici (13!) punti. Quattro triple e un tiro libero: entra tutto.

Gli Spurs, come detto, vinceranno il titolo. Ma questa era la partita di Tracy McGrady, il dormiglione capace di illuminare la notte di Houston.

TAPPA 3: MILANO, 16 GIUGNO 2005

Ci spostiamo di pochi mesi. La stagione è sempre la stessa: 2004/2005. E c’è anche il canestro, quindi si parla ancora di basket. Però dobbiamo attraversare l’oceano, da Houston a Milano. Gara-4 della finale scudetto: se la Fortitudo di coach Repesa vince, è campione d’Italia. Altrimenti, in caso di successo dell’Olimpia, si va alla bella in terra bolognese.

Un passo indietro di qualche mese, estate 2004. Grazie ad un accordo tra la Lega basket e Sky, la tecnologia è pronta ad entrare sul parquet. Per la prima volta lo scudetto potrà essere assegnato grazie al video: gli arbitri, nelle semifinali e in finale, avranno a disposizione le immagini. Ad esempio per verificare se un tiro è da 2 o da 3 punti oppure per controllare se è stato effettuato prima del suono della sirena. Instant replay, si chiama così: negli Stati Uniti i primi ad introdurlo sono stati i dirigenti della NFL (football americano) nel 1986.

La Fortitudo Bologna, che sta per giocarsi il match point al Forum di Assago, è reduce da quattro finali scudetto consecutive. Tutte perse. A cavallo tra i due millenni, i biancoblù sono quasi sempre arrivati in fondo, con una percentuale di finali vinte del… 20%: nelle undici stagioni tra il 1996 e il 2006, 2 scudetti e 8 secondi posti. L’anno precedente alla sfida con Milano, tra l’altro, la Effe aveva perso anche la finale di Eurolega (col Maccabi nel 2004: ultima squadra italiana che è arrivata a giocarsi il titolo europeo). “Si stava meglio quando si stava peggio”, è una frase che ogni tanto qualcuno tira fuori: leggendola con gli occhi di un tifoso fortitudino, forse quel decennio pieno di finali perse era meglio dei dieci anni senza Serie A (lasciata nel 2009 e ripresa solo nel 2019).

Torniamo a noi: 16 giugno 2005, può essere l’ultimo o il penultimo match stagionale. Finora ha sempre vinto la squadra di casa. Bologna ha conquistato gara-1 e gara-3, Milano gara-2. Totale: due a uno. Chi arriva a tre, è campione. L’Olimpia Milano, che in semifinale ha sorprendentemente eliminato la Benetton Treviso, sta conducendo gara-4 col punteggio di 67-65: mancano 30 secondi al termine della partita e Ruben Douglas, guardia della Fortitudo, è in lunetta per pareggiare i conti.

Fuori il primo tiro libero, dentro il secondo: Milano è ancora sopra, ma di un solo punto. I padroni di casa cercano di giocare col cronometro e sfruttano quasi tutti i 24 secondi a loro disposizione, prima di provare la tripla con Calabria. Ferro. Rimbalzo degli ospiti con capitan Basile, che ha pochissimi secondi per inventarsi qualcosa. Palla a Ruben Douglas, tiro da tre. Dentro! Buono? No? Sì? Ah, ma c’è l’instant replay: guardiamolo allora. Attimi infiniti, poi quelle tre dita sollevate dall’arbitro: canestro valido. Fortitudo campione d’Italia per la seconda volta nella sua storia.

Di quel gruppo fa parte anche un 19enne di nome Marco Belinelli, già richiesto da tantissime squadre. A fine gara risponde ad una domanda sul suo futuro: “Io non mi muovo”. Promessa mantenuta, farà altri due anni sotto le Due Torri. Poi quella chiamata a cui non puoi dire di no: la NBA. Il ragazzo di San Giovanni in Persiceto la vincerà nel 2014 con i San Antonio Spurs: sì, insieme a Duncan, Parker e Ginobili.

TAPPA 4: MANCHESTER, 13 MAGGIO 2012

Torniamo a parlare di calcio, torniamo a parlare di Manchester. All’inizio avevamo visto il trionfo della parte rossa della città, stavolta andiamo nello stadio dei blu: il City. È una domenica pomeriggio, in Italia tanti addii: Del Piero saluta il pubblico juventino alzando il primo scudetto post-Calciopoli, mentre a San Siro le lacrime dei milanisti scendono per Nesta, Gattuso e Inzaghi.

In Inghilterra, invece, è ancora tempo di verdetti. Manchester City e Manchester United arrivano appaiati in testa alla classifica a 90 minuti dal termine. Ottantasei punti per ciascuno. Il campionato sembrava in un primo tempo aver preso la strada del City, poi a sei giornate dal termine pareva praticamente in mano allo United: un vantaggio di 8 punti che però si azzera nel giro di soli quattro turni (decisivo lo scontro diretto alla terz’ultima giornata, 1-0 con gol di capitan Kompany). La differenza reti, criterio che in Premier League è decisivo, sorride alla squadra di Roberto Mancini: +63 City, +55 United. In sostanza: al City basta vincere, non servono smartphone o radioline. I Red Devils giocano a Sunderland, che è già salvo. I Citizens ospitano il Queens Park Rangers, che per salvarsi ha bisogno di un punto (altrimenti rischia il sorpasso del Bolton).

Alex Ferguson, col suo United, ha vinto 12 degli ultimi 19 campionati. Gli altri, invece, aspettano di salire sul tetto d’Inghilterra dal lontano 1968. Un’annata che è già saltata fuori nelle prime righe, quando si parlava dell’ultima Coppa dei Campioni vinta dai rossi (prima di trionfare a Barcellona). Nel ’68, infatti, c’era una parte di Manchester che conquistava l’Inghilterra e l’altra che dominava l’Europa.

All’intervallo dell’ultima giornata di Premier League, tornando al 2012, la situazione è questa: lo United sta vincendo 1-0 a Sunderland e il City con lo stesso punteggio sta battendo il Qpr, che ha bisogno di punti perché il Bolton è sopra (2-1) in casa dello Stoke. Per una ventina di minuti il titolo è virtualmente passato da Mancini a Ferguson: al gol di Wayne Rooney, però, ha risposto a distanza Pablo Zabaleta (che in campionato non aveva ancora segnato).

A Sunderland il punteggio rimane così fino al fischio finale. A Manchester no, succede di tutto. 48’: gol di Cissé, 1-1. 55’: espulso Barton, ospiti in dieci. 66’: nonostante l’inferiorità numerica, il Qpr passa in vantaggio con la zuccata di Mackie, 1-2. Al novantesimo l’arbitro assegna cinque minuti di recupero. Servono due gol al City. Mancini, poco dopo la metà del secondo tempo, aveva buttato nella mischia Edin Dzeko e Mario Balotelli. Quando il cronometro segna 91:15, proprio Dzeko trova il 2-2 sugli sviluppi di un corner. Nel frattempo, finiscono le gare del Bolton e dello United: i primi hanno subito il gol del pareggio, quindi sono retrocessi (e il Qpr è salvo in ogni caso); i secondi sono in campo con le radioline, in attesa di poter liberare l’urlo.

L’urlo, però, saranno i tifosi del City a liberarlo. Un urlo che è lì in gola da ben 44 anni. Al minuto 93:20 Sergio Aguero sfrutta l’ottimo assist di Mario Balotelli e regala alla sua gente un’emozione enorme.

A distanza di cinque anni da quel pomeriggio, il Manchester City ha prodotto un bel documentario di quattro puntate (ognuna guardando il 13 maggio 2012 dagli occhi di chi l’ha vissuto: giocatori, tifosi, dipendenti e giornalisti). Il titolo? 93:20. Sono tutte abbastanze brevi, ma intense: potete trovarle su YouTube.

Ancora oggi c’è chi dice che, se non fosse arrivata la notizia relativa al 2-2 del Bolton, i giocatori del Qpr sarebbero stati molto più combattivi. Non lo sappiamo. In ogni caso, per la gente di Manchester rimane un giorno storico. Nell’invasione di campo, all’Etihad Stadium, c’era uno striscione che recitava così: “Not in my lifetime”. Molti dei tifosi del City, infatti, temevano di non riuscire a vincere nessun titolo d’Inghilterra nel corso della propria esistenza: dopo il successo del 1968, tanti periodi difficili tra i quali quattro retrocessioni in seconda divisione e anche una in terza.

A volte, però, bastano due minuti. Lo sanno bene i cugini dello United, che a tredici anni di distanza hanno rivissuto, al contrario, le emozioni del Camp Nou.

TAPPA 5: WATFORD, 12 MAGGIO 2013

Rimaniamo in Inghilterra. La data è simile: dal 13/05/12 al 12/05/13. Si sono scambiati il 12 e il 13. È ancora domenica, anche stavolta c’è in palio qualcosa di importante. Gianfranco Zola e il suo Watford si stanno giocando l’accesso alla Premier League: per arrivarci, devono vincere i playoff di Championship, la seconda divisione inglese. Al King Power Stadium di Leicester, tre giorni prima, i padroni di casa avevano vinto la semifinale d’andata per 1-0. Serve una rimonta tra le mura amiche, a Vicarage Road.

Al 90’ della gara di ritorno il tabellone dice 2-1 Watford. Supplementari? Se il punteggio non cambia, sì: a differenza di quanto accade in Champions League o in Coppa Italia, fortunatamente esiste qualche competizione calcistica in cui la regola dei gol in trasferta non è contemplata. A qualcuno, evidentemente, piacerà. Va beh, visto che non siamo in un ufficio in cui si fa la storia del calcio, andiamo avanti.

Supplementari, dicevamo. Invece no: quando stanno per finire i quattro minuti di recupero, il direttore di gara Michael Oliver valuta falloso l’intervento di Marco Cassetti ai danni di Knockaert. Vi dice qualcosa il nome dell’arbitro? E’ proprio lo stesso a cui Buffon, dopo un Real Madrid-Juventus del 2018, consiglierà di bere fruttini e mangiare patatine anziché stare sul campo col fischietto in bocca. Il portiere poi si scuserà, così come farà lo stesso Oliver nei confronti di Gianfranco Zola: i due si incontreranno in campo e l’arbitro ammetterà il proprio errore.

Errare è umano, rigore: se Knockaert spiazza Almunia, il Leicester va in finale. Minuto 96:34, parata! Anzi, doppio salvataggio perché il portiere spagnolo fa suo anche il secondo tentativo del rigorista. Si va ai supplementari. È il pensiero di tutti, ma i giocatori di casa hanno un’altra idea. Dalla doppia parata di Almunia passano solo 18 secondi e… il punteggio cambia: 3-1 Watford, gol di Deeney a 96:52. Lezione magistrale di contropiede. A Wembley ci vanno gli Hornets.

In quella finale i supplementari ci saranno davvero: non andrà bene per Zola e i suoi, in Premier League salirà il Crystal Palace. Il Watford arriverà ai piani alti due anni dopo, giusto per partecipare a quella che forse è l’impresa sportiva più grande della storia recente dello sport. La scriverà un altro italiano: Claudio Ranieri, alla guida del Leicester (che in quell’annata batterà il Watford sia all’andata che al ritorno). Se date un’occhiata alla classifica marcatori dell’incredibile Premier 15/16, trovate Harry Kane al primo posto con 25 gol e Jamie Vardy subito dietro con 24 gol (come Aguero).

Sapete dov’erano quei due nel 2013, al momento del fischio d’inizio di Watford-Leicester? Entrambi a sedere sulla panchina del Leicester: non si immaginavano di assistere ad un finale di gara così folle, ma probabilmente non sognavano neanche di trasformarsi in soli tre anni da compagni di panchina in seconda divisione a compagni d’attacco agli Europei con la maglia dell’Inghilterra. O forse sì…

TAPPA 6: TORONTO, 12 MAGGIO 2019

Sesta e ultima tappa. Siamo in Canada, alla Scotiabank Arena. Il 12 maggio cade di domenica, come sei anni prima. Non è più calcio, ma basket: in programma gara-7 tra Toronto Raptors e Philadelphia 76ers. Chi vince, va a sfidare i Milwaukee Bucks nella finale di Eastern Conference (ultimo gradino prima delle Finals che assegnano il titolo). In Canada non c’è mai stato un trionfo NBA: dalla prima edizione (1946/47) alla settantaduesima (2017/18) gli anelli sono sempre finiti nel territorio statunitense.

La stagione 2018/19 di Toronto si era aperta con l’ingaggio di Kawhi Leonard, in maglia Spurs nei sette anni precedenti. Qualche riga fa, mentre si parlava della Fortitudo e di Belinelli, era spuntata la vittoria del 2014 di San Antonio: ecco, in quel caso l’MVP delle Finals (miglior giocatore) era stato proprio Leonard, capace di essere nominato anche miglior difensore della lega nelle due stagioni seguenti. “Nessuno oggi sa abbinare la fase offensiva e quella difensiva come lui”. A dirlo non è un tifoso, ma il più grande di sempre: Michael Jordan.

Jordan è anche, fin lì, l’unico ad aver risolto una gara decisiva nei playoff NBA con un buzzer beater. Cos’è? Gli americani (ma non solo loro) definiscono così il tiro che permette di vincere un match sulla sirena: in altre parole, quando la palla entra nella retina a tempo scaduto e grazie a quei due o tre punti la squadra riesce a vincere una gara che fino a pochi secondi prima era in parità oppure in mano agli avversari. A decidere la serie tra i Chicago Bulls e i Cleveland Cavaliers (primo turno, 1989) è proprio il buzzer beater di Michael Jordan: un tiro da due punti che ribalta lo svantaggio, da -1 a +1.

Se su Google provate a digitare “The Shot” (il tiro), vi appare proprio questo colpo, firmato dal giocatore che negli anni Novanta avrebbe poi dominato la scena. Quella serie era al meglio delle 5 partite, quindi nella storia del gioco non c’è ancora stato un buzzer beater in gara-7. La sera del 12 maggio 2019 Toronto e Philadelphia sono sul 90-90, mancano 4 secondi e 2 decimi all’eventuale tempo supplementare. Rimessa per i Raptors, la palla ovviamente va al giocatore che fino a quel momento ha messo a referto 39 punti. Il tiro da due punti di Kawhi Leonard rimbalza sul ferro. Una, due, tre, quattro volte! Poi va dentro: trent’anni dopo Michael Jordan, un’altra magia sulla sirena per decidere la serie.

La storia finirà benissimo: i Toronto Raptors vinceranno quel titolo NBA, superando i Milwaukee Bucks e poi i Golden State Warriors. Primo storico trionfo per il Canada. Secondo premio di MVP delle Finals per Kawhi Leonard, unico giocatore a conquistarlo sia con una squadra dell’Est che con una dell’Ovest.

Viaggio finito.

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